I limiti dello jus variandi in telefonia
(Consiglio di Stato sentenza n. 8024/2019)
Pubblicato il 25/11/2019
N. 08024/2019REG.PROV.COLL.
N. 05809/2017 REG.RIC.
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5809 del 2017, proposto da
TELECOM ITALIA SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Francesco Saverio Cantella, Filippo Lattanzi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Filippo Lattanzi in Roma, via G. P. Da Palestrina, n. 47;
contro
AUTORITÀ PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 5033 del 2017;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 ottobre 2019 il Cons. Dario Simeoli e uditi
per le parti gli avvocati Lattanzi Filippo e dello Stato Giovanni Greco.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.‒ La società appellante premette quanto segue:
- con nota del 13 febbraio 2015, Telecom Italia s.p.a. (di seguito: “TI”) comunicava
all’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni (di seguito: “Autorità”) che, per esigenze
di razionalizzazione organizzativa e di semplificazione delle offerte disponibili per
l’utenza, a decorrere dal successivo 1 maggio le offerte di servizi telefonici fissi
residenziali sarebbero state aggiornate;
- la modifica avrebbe riguardato la sostituzione dell’attuale offerta generalizzata a
consumo con una serie di proposte negoziali comprensive di canone e di chiamate
illimitate verso le numerazioni fisse nazionali e mobili di tutti gli operatori, prevedendosi
contestualmente la cessazione di una serie di altre proposte tariffarie;
- in particolare, era previsto che gli utenti coinvolti dalla cessazione delle suddette
offerte sarebbero stati ricollocati automaticamente su tre distinte tipologie in funzione
della rispettiva profilazione di consumi, e segnatamente:
i) sull’offerta “VOCE” ‒ al costo di 19,90 euro/mese per il solo accesso alla linea
telefonica, con una tariffa a consumo per il traffico voce (sia verso fisso che verso
mobile) pari a 10 eurocent/minuto, ed uno sconto del 50% al superamento delle tre ore
di conversa-zione al mese ‒ sarebbero state allocate tutte le linee telefoniche tradizionali
(c.d. RTG) sulle quali nel periodo ottobre-dicembre 2014 non risultava essere stata
effettuata nessuna chiamata in uscita;
ii) sull’offerta “TUTTOVOCE” ‒ al costo di 29 euro/mese, comprensiva di accesso alla
linea telefonica, di chiamate illimitate per tutte le numerazioni fisse e mobili nazionali,
senza variazione per l’eventuale offerta dati attiva sulla stessa linea ‒ sarebbero stati
automaticamente dirottati tutti i clienti di che, nello stesso periodo di tempo, avevano
effettuato almeno una telefonata;
iii) sull’offerta “TUTTO” ‒ ad un corrispettivo mensile di euro 44,90, comprensiva di
accesso alla linea telefonica, di chiamate illimitate verso tutte le numerazioni fisse e
mobili nazionali e connessione ADSL illimitata con profilo fino a 7 mega ‒ sarebbero
stati automaticamente migrati soltanto i clienti titolari di una offerta ADSL flat, alla
quale avrebbe potuto essere abbinato un pacchetto per la forfettizzazione dei consumi
di traffico fonia;
- sennonché, l’Autorità, con delibera n. 169/15/CONS del 20 aprile 2015, rilevava
profili di criticità relativamente al rispetto, sia degli obblighi di servizio universale, sia di
quelli di informativa nei confronti degli utenti interessati, e diffidava conseguentemente
la società appellante a rispettare, nei termini indicati in motivazione, gli artt. 53, 54 e 70
comma 1, del decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259 (Codice delle Comunicazioni
elettroniche: di seguito “Codice”);
- secondo l’Autorità sarebbe stato necessario distinguere, fra i destinatari della descritta
manovra tariffaria, gli utenti titolari di una linea di accesso “priva di offerte di servizi
telefonici attive” da quelli che avevano già aderito ad offerte tariffarie flat, comprensive
del servizio telefonico, in quanto: per i primi, titolari di solo di una linea di accesso alla
rete senza altre offerte attive, il trasferimento automatico ad un’offerta flat comprensiva
del servizio telefonico con chiamate illimitate, avrebbe modificato sostanzialmente
l’oggetto del contratto di fornitura del servizio universale, rendendosi quindi necessaria
la previa acquisizione da parte di TI del consenso espresso ai sensi dell’art. 70, comma 1,
del Codice, e non essendo invece possibile ricorrere al meccanismo di “opt out”
(fondato, cioè, sull’esercizio del diritto di recesso) previsto dall’art. 70, comma 4, dello
stesso Codice; con riferimento invece agli utenti che avessero già attive specifiche
offerte tariffarie relative al servizio telefonico, il passaggio ad un’altra offerta flat
configurando una mera rimodulazione di offerte tariffarie già attive avrebbe potuto
essere legittimamente inquadrato nell’ambito della disciplina sulle modifiche delle
condizioni contrattuali di cui al predetto art. 70, comma 4, del Codice;
- seguivano ulteriori interlocuzioni tra l’appellante e l’Autorità, ma cionondimeno
quest’ultima, con atto notificato il 31 luglio 2015, contestava formalmente all’odierna
appellante l’inottemperanza alla diffida recata dalla predetta delibera n. 169 del 2015,
assegnando un termine di trenta giorni per la formulazione di una memoria di
osservazioni, ed avertendo che, in caso di accertata violazione, avrebbe applicato la
sanzione pecuniaria di cui all’art. 98, comma 11, del Codice;
- la delibera da ultimo menzionata veniva impugnata da TI, con ricorso straordinario poi
trasposto in sede giurisdizionale, censurando essenzialmente:
i) l’illegittima identificazione dell’oggetto del servizio universale, alla luce della normativa
rilevante (artt. 53 e 54 del Codice), con la sola componente essenziale relativa alla
connessione alla postazione fissa, qualificandosi invece come prestazione opzionale il
servizio telefonico che consenta di effettuare e ricevere chiamate nazionali e
internazionali, attivabile su richiesta dell’utente;
ii) in ragione della unitarietà tecnica e giuridica dell’obbligo di servizio universale,
l’inconfigurabilità nel caso di specie di una modificazione dell’oggetto del contratto
originario, risolvendosi la manovra tariffaria nella mera variazione della modalità di
determinazione del corrispettivo a parità di servizi offerti, con conseguente piena
operatività del meccanismo di opt out previsto dall’art. 70, comma 4, del Codice;
- il procedimento sanzionatorio si concludeva quindi con l’adozione della delibera n.
61/16/CONS, notificata l’1 marzo 2016, con la quale l’Autorità, accertata
l’inottemperanza da parte di TI alla delibera n. 169 del 15, irrogava la sanzione
pecuniaria pari a 2 mln di Euro;
- anche tale delibera veniva impugnata con motivi aggiunti, aventi ad oggetto le
medesime censure già dedotte con l’atto introduttivo nei confronti della delibera n.
169/15.
2.‒ Il Tribunale Amministrativo Regionale, con sentenza n. 5033 del 2017, respingeva i
ricorsi.
3.‒ Avverso la predetta sentenza ha proposto appello Telecom Italia s.p.a.,
riproponendo in sostanza i medesimi vizi sollevati in primo grado, sia pure adattati
all’impianto motivazione della pronuncia gravata.
In particolare, secondo l’appellante:
a) il T.a.r. avrebbe posto alla base della sua pronuncia una motivazione completamente
diversa da quella risultante dai provvedimenti impugnati, con conseguente eccesso di
potere giurisdizionale; l’esame del contenuto letterale della delibera n. 169/15
porterebbe a ritenere che, ad avviso dell’Autorità, la violazione dell’art. 70 del Codice
sarebbe una diretta conseguenza della inosservanza alla normativa sul servizio
universale; ritenendo invece che le conclusioni raggiunte dall’Autorità sarebbero
analogamente fondate anche qualificando il servizio universale «nei termini propugnati
dalla ricorrente, secondo cui i servizi di fonia sono strettamente inerenti e non scindibili
dalla prestazione base dell’accesso alla rete», il giudice avrebbe sostituito alle chiare ed
univoche ragioni individuate nel provvedimento impugnato argomenti esclusivamente
civilistici, imperniati sulla configurabilità di una novazione oggettiva del rapporto, del
tutto indipendenti dall’esatta portata degli obblighi di servizio universale, mai evocati
dall’Autorità;
b) la modifica contenuta nella manovra tariffaria censurata avrebbe inciso non
sull’oggetto del rapporto contrattuale ‒ essendo i servizi erogati i medesimi inclusi nel
servizio universale e fruiti precedentemente ‒ ma solo sulla modalità di determinazione
del corrispettivo, il quale farebbe parte del contenuto minimo del contratto previsto
dall’art. 70, comma 1, del Codice, e quindi rientrerebbe tra le condizioni modificabili ai
sensi dell’art. 70, comma 4, del Codice, in presenza delle quali è apprestato il rimedio del
recesso senza penali;
c) la tesi del giudice di prime cure, secondo cui la manovra tariffaria avrebbe avuto effetti
“novativi” del precedente rapporto contrattuale, si porrebbe in contrasto con gli articoli
54 e 70 del d.lgs. n. 259 del 2003 e con gli artt. 4 e 20 della direttiva 2002/22/UE, in
quanto alla luce della richiamata normativa di settore, una manifestazione espressa e
preventiva di volontà negoziale è richiesta solo per l’utente che intenda “abbonarsi” ad
un (nuovo) servizio di comunicazione elettronica; nel caso in esame, l’utente che
aderisce a TUTTOVOCE, senza esercitare tempestivamente il diritto di recesso, non
acquisterebbe un nuovo “pacchetto di servizi”, perché il servizio di comunicazione
vocale è già attivo sulla sua linea, bensì deciderebbe consapevolmente di mutare le
modalità di tariffazione del medesimo servizio;
d) ogni diversa interpretazione degli artt. 70, commi 1 e 4, del Codice, ne imporrebbe la
disapplicazione per violazione dell’art. 20, commi 1 e 2, della direttiva UE 2002/22,
come modificata dalla direttiva 2009/136, o, quanto meno, dovrebbe indurre a rimettere
alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale la seguente questione: «Se l’art. 20, paragrafi 1
e 2, della direttiva n. 2002/22/CE osti ad una normativa nazionale, come l’art. 70,
commi 1 e 4, del decreto legislativo n. 259 del 2003, la quale esclude l’applicabilità del
meccanismo del recesso, imponendo invece la preventiva acquisizione di un nuovo
consenso da parte dell’ utente, nel caso di modifiche delle condizioni contrattuali da
parte dell’operatore di comunicazione elettronica che non comportino l’ abbonamento a
nuovi servizi, come la fonia, i dati, la messaggistica, bensì il mero passaggio da una
tariffa a consumo ad una tariffa a forfait, ferme restando tutte le altre componenti del
rapporto contrattuale»;
e) lo jus variandi trovava nel caso di specie anche un suo puntuale recepimento nell’art. 13
delle condizioni generali di abbonamento al servizio telefonico di TI, valide per i
contratti sottoscritti sino al 30 giugno 2016, il quale prevedeva espressamente
l’operatività del meccanismo di tutela opt out per «ogni modifica relativa al contratto»;
f) quand’anche per assurdo si volesse negare la specialità della disciplina di cui all’art. 70
del Codice, ritenendosi del tutto irrilevante anche il contenuto delle pattuizioni
contrattuali, in ogni caso dovrebbe escludersi il carattere novativo della manovra
tariffaria, non ricorrendo gli elementi essenziali (aliquid novi, animus novandi, causa
novandi) ricavabili dall’art. 1230 del codice civile;
g) sarebbe altresì erronea la tesi del giudice di prime cure, secondo cui in seguito alla
sostituzione di una tariffa a consumo con una forfetaria, il contratto assumerebbe le
connotazioni di un contratto aleatorio: l’ipotetica aleatorietà non sarebbe certamente
bilaterale, dal momento che per l’utente la misura della prestazione (quantità di
chiamate) sarebbe rimessa alle sue libere scelte di fruizione del servizio, modulate in
funzione del prezzo forfetario corrisposto, e non ad un evento incerto estraneo alla sua
sfera volitiva; l’unica parte a sopportare i rischi della indeterminabilità ex ante della
prestazione sarebbe lo stesso operatore economico, a svantaggio del quale soltanto,
quindi, potrebbe determinarsi uno squilibrio del sinallagma;
h) anche l’ulteriore argomento speso nella sentenza appellata a sostegno del rigetto
dell’impugnativa, vale a dire la non convenienza del passaggio alla tariffa flat per la
maggior parte degli utenti basso spendenti sarebbe erroneo: da un lato, l’Autorità non
avrebbe in alcun modo contestato il carattere non accessibile delle nuove tariffe;
dall’altro, l’art. 70, comma 4, del Codice,), non attribuisce un diritto potestativo al
gestore, di fronte al quale l’abbonato versa in una condizione di mera soggezione, ma
apprestano una efficace forma di tutela degli interessi della parte più debole,
consentendole di esercitare il diritto di recesso entro un termine più che congruo; il
giudice di prime cure non avrebbe tenuto nemmeno conto del fatto che, sulla base dei
dati disponibili al dicembre 2016, i clienti originariamente su RTG con tariffazione a
consumo trasferiti sulla TUTTOVOCE, avevano incrementato in media i loro consumi
(da giugno 2015 a giugno 2016) di circa il 30%;
i) l’accoglimento dei mezzi di gravame, facendo venire meno il principale capo di
contestazione (residuando a questo punto le sole contestazioni riguardanti gli obblighi
informativi), renderebbe doverosa la rideterminazione dell’importo della sanzione
pecuniaria comminata dall’Autorità; il giudice di prime cure avrebbe poi omesso di
considerare, quale fattore di ridimensionamento della gravità della condotta principale, il
sopra riferito aumento dei consumi medi da parte di buona parte della utenza migrati
verso la tariffa “TUTTOVOCE”.
4.‒ Resiste in giudizio l’Autorità Garante delle Comunicazioni, insistendo per il rigetto
del ricorso.
5.‒ All’odierna udienza del 10 ottobre 2019, la causa è stata discussa e trattenuta in
decisione.
DIRITTO
1.‒ Come è stato esposto nella premessa in fatto, l’intervento sanzionatorio dell’Autorità
ha per oggetto l’offerta “TUTTO VOCE”, verso la quale TI ha reindirizzato
automaticamente la clientela che, in precedenza, aveva sottoscritto un contratto per linea
di accesso con tariffazione a consumo delle eventuali chiamate e che, nei tre mesi
precedenti, aveva effettuato almeno una chiamata.
Il principale rilievo mosso dall’Autorità è che, nell’ambito di detta clientela, l’operatore
economico avrebbe omesso di operare una distinzione tra coloro che in precedenza
avevano già sottoscritto opzioni tariffarie aggiuntive per i servizi telefonici, e coloro che,
invece, si erano limitati a mantenere la titolarità della linea di accesso e ad effettuare
chiamate a consumo.
Per quest’ultima tipologia di consumatori, il reindirizzamento automatico verso
un’offerta già comprensiva di chiamate illimitate ad un prezzo forfettario avrebbe
integrato la violazione, sia delle norme sulla fornitura del servizio universale, sia delle
disposizioni sull’acquisizione del consenso per l’adesione ad un nuovo e diverso
contratto.
1.1.‒ Ritiene il Collegio che entrambi gli addebiti ‒ i quali, come si vedrà nel prosieguo,
costituiscono profili complementari di un’imputazione unitaria ‒ sono fondati e che
l’Autorità ha fatto corretto uso dei suoi poteri.
2.‒ Il primo ordine di censure sollevato dell’appellante ‒ secondo cui la delibera
impugnata sarebbe partita dall’erroneo presupposto che sia possibile scindere la
«richiesta di connessione in postazione fissa ad una rete di comunicazione pubblica»
(art. 54, comma 1, del Codice) dalla «fornitura di un servizio telefonico accessibile al
pubblico attraverso la connessione di rete» (art. 54, comma 2-bis, dello stesso Codice), i
quali invece andrebbero a comporre unitariamente il servizio universale ‒ non coglie nel
segno.
2.1.‒ Nel settore delle comunicazioni elettroniche ‒ al pari di quanto avviene per i
trasporti, le poste, e l’energia elettrica ‒ il servizio universale, definito come «un insieme
minimo di servizi di una qualità determinata, accessibili a tutti gli utenti a prescindere
dalla loro ubicazione geografica e, tenuto conto delle condizioni nazionali specifiche,
offerti ad un prezzo accessibile» (art. 1, comma 1, lettera ll, del Codice), mira a
coniugare il consolidamento del mercato interno con le istanze di uguaglianza e
coesione sociale.
È fuori discussione che la connessione di rete debba consentire agli utenti finali di
supportare le chiamate in entrata e in uscita: si tratta infatti di una prescrizione espressa
di legge (art. 54, comma 2, del Codice, secondo cui «[l]a connessione consente agli utenti finali
di supportare le comunicazioni vocali, facsimile e dati, a velocità di trasmissione tali da consentire un
accesso efficace a Internet tenendo conto delle tecnologie prevalenti usate dalla maggioranza dei contraenti
e della fattibilità tecnologica nel rispetto delle norme tecniche stabilite nelle Raccomandazioni dell’UITT
»). Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, l’Autorità non ha inteso
affermare che l’accesso alla postazione fissa sia una componente a sé stante, e non uno
strumento per effettuare e ricevere chiamate nazionali o internazionali (oltre che per
fruire di connessioni dati).
La violazione degli obblighi specifici per la fornitura del servizio universale che
incombevano in capo a TI è di tutt’altro segno e va intesa nei seguenti termini.
Non è consentito all’operatore incaricato di costringere surrettiziamente ‒ attraverso il
meccanismo contrattuale che si esaminerà nel prosieguo ‒ i destinatari del servizio
universale ad acquistare un pacchetto di servizi telefonici sovradimensionato rispetto al
bisogno che, fino a quel momento, gli stessi avevano manifestato. La finalità del servizio
universale è, difatti, quella di “abilitare” il consumatore all’utilizzo delle comunicazioni
elettroniche e non quella di imporne lo sfruttamento con l’impiego di risorse
economiche eccedenti le esigenze dell’utenza meno evoluta, formata da anziani ed altri
soggetti vulnerabili, poco inclini a selezionare in modo avveduto le diverse offerte di
mercato.
L’accessibilità del servizio universale implica anche la proporzionalità della fornitura,
dimodoché «il contraente non sia costretto a pagare prestazioni o servizi che non sono
necessari o che non sono indispensabili per il servizio richiesto» (art. 60, comma 1, del
Codice). L’abbordabilità dei prezzi, a sua volta, è legata «alla possibilità [per l’utente] di
sorvegliare e controllare le proprie spese» (cfr. considerando 8 della direttiva n.
2002/22/CE; art. 60, comma 2, del Codice).
Nel caso in esame, la clientela è stata automaticamente trasferita da un contratto per sola
linea di accesso, che prevedeva la possibilità di effettuare chiamate con tariffazione a
consumo (al prezzo di circa 19 euro al mese di canone e 10 eurocent al minuto per
chiamata) ‒ e dunque in modo correlato all’uso effettivo che ne faceva l’utente ‒, ad un
contratto flat con prezzo maggiorato quasi del 50% (29 euro al mese), comprensivo di
un pacchetto di chiamate ad un prezzo forfettario.
3.‒ Perché possa configurarsi l’anzidetta violazione delle norme sul servizio universale
occorre tuttavia dimostrare ‒ e veniamo così al secondo profilo della condotta ascritta
all’operatore sanzionato ‒ che la rimodulazione tariffaria, effettuata senza richiedere agli
utenti la prestazione di un consenso espresso, si sia risolta in una forma di abuso della
libertà contrattuale.
3.1.‒ La disciplina dei contratti di utenza telefonica ‒ variamente qualificati dalla
giurisprudenza come contratti di appalto oppure di somministrazione ‒ trova la sua
fonte in atti legislativi e di normazione secondaria promananti dell’Autorità di
regolazione, i quali si occupano di tutte le fasi della contrattazione. Mentre il codice
civile annovera per lo più forme di tutela che agiscono mediante meccanismi correttivi
di tipo procedimentale, ovvero incentrati sul processo di formazione della volontà (vizi
psicologici del consenso, che talvolta devono accompagnarsi alla sproporzione delle
prestazioni) dei singoli contraenti, nella prospettiva regolatoria la protezione si
intensifica: lo squilibrio a danno del consumatore viene, difatti, avversato con nuovi
rimedi preventivi (obblighi di forma, di contenuto, di informazione, di chiarezza, di
trasparenza) e successivi (recessi di pentimento, recessi ordinari, nullità di protezione).
Ai nostri fini interessa sottolineare come a norma dell’art. 70 del Codice prefigura due
diverse sequenze negoziali:
- il primo comma fissa, per i consumatori che intendano stipulare contratti per la
fornitura di «servizi di connessione ad una rete di comunicazione pubblica o servizi di
comunicazione elettronica accessibile al pubblico», la regola del consenso preventivo ed
espresso;
- il comma 4, per il diverso caso di modifiche delle condizioni contrattuali disposte
unilateralmente da parte dell’operatore economico, assegna all’utente che non intenda
accettarle il diritto di recedere dal contratto «senza penali né costi di disattivazione.
A questo punto, occorre comprendere quale siano gli ambiti operativi coperti,
rispettivamente, dagli anzidetti meccanismi procedimentali. L’art. 70 del Codice
disciplina minuziosamente il procedimento per il corretto esercizio del ius variandi ‒
imponendo all’operatore di comunicare le modifiche al contraente con adeguato
preavviso, non inferiore in ogni caso a 30 giorni; informando, inoltre, i clienti del loro
diritto di recedere senza spese o multe penitenziali, né costi di disattivazione, nonché
della possibilità di passare ad un altro operatore ‒ ma non specifica i presupposti per il
suo utilizzo.
3.2.‒ In termini generali, il ius variandi va classificato tra i diritti potestativi assegnati a
una delle parti, dalla legge o dal contratto, per determinare unilateralmente una modifica
del regolamento negoziale. Nel codice civile, varie fattispecie sono disseminate soltanto
nella disciplina dei contratti tipici, e segnatamente: nell’appalto (art. 1661), nel trasporto
(art. 1685), nel riscatto (art. 1685), nell'assicurazione sulla vita (art. 1925), nel lavoro
subordinato (art. 2103). Se ne ricava l’impressione che, nella prospettiva codicistica,
l’istituto è cautamente ammesso dall’ordinamento quando ritenuto utile ad adattare, nei
contratti di durata, il regolamento contrattuale al trascorrere del tempo in funzione delle
diseconomie che quest’ultimo può determinare sull’assetto negoziale originariamente
pattuito.
Il diritto dei contratti asimmetrici guarda con maggiore favore al ius variandi,
disciplinandone specifiche condizioni di legittimità. Vanno per l’appunto menzionante le
varie disposizioni che (come l’art. 70, comma 4, del Codice) correlano lo ius variandi
riconosciuto all’operatore economico con lo ius poenitendi attribuito al cliente
consumatore, quale fattore in grado di ridurre lo squilibrio generato dall’attribuzione alla
controparte di un potere di incisione unilaterale. Anche nel codice del consumo, lo ius
poenitendi rappresenta un contrappeso dello ius variandi che lo sottrae al giudizio di
abusività; l’art. 33, comma 4, infatti, prevede che, in deroga al secondo comma (che
identifica, in via presuntiva, il ius variandi tra i contenuti vessatori del contratto), il
professionista possa variare il contenuto economico del contratto.
La qualificazione giuridica di siffatte previsioni è assai discussa in letteratura: per alcuni,
lo ius variandi conserverebbe, anche se collegato al diritto di recesso della controparte,
la sua natura di potere unilaterale; per altri, invece, la sequenza recesso-rifiuto andrebbe
ricondotta piuttosto nell’area degli accordi modificativi, operando il diritto di recesso
come atto che interrompe il procedimento di formazione dell’accordo sulla modifica.
Ritiene il Collegio che, quantomeno nel quadro dei rapporti contrattuali caratterizzati da
una forte asimmetria tra i contraenti, la ricostruzione in termini di bilateralità del
meccanismo modifica-recesso sia fuorviante. Il contegno dell’utente che ometta di
esercitare il recesso non è sufficiente a ricondurre la variazione disposta unilateralmente
dall’operatore professionale ad un accordo. Il cliente “subisce” la modifica apportata ex
uno latere e che egli non ha voluto. Ad impedire di riconoscere al silenzio il significato
di accettazione delle nuove condizioni contrattuali sta una fondamentale considerazione:
il recesso permette al titolare, non la conservazione delle condizioni contrattuali
originariamente convenute, ma soltanto l’uscita dal rapporto; la difficoltà per gli utenti
più vulnerabili di destreggiarsi sul mercato costituisce per essi un disincentivo
significativo ad avvalersi della facoltà di exit.
Per questi motivi, l’art. 70, comma 4, del Codice, non può applicarsi a qualsivoglia tipo
di variazione del contenuto del contratto, dovendosi riconoscere in via ermeneutica due
tipologie di limiti: in primo luogo, le modifiche unilaterali possono riguardare soltanto la
variazione di condizioni già contemplate nel contratto; in secondo luogo, i mutamenti
delle condizioni preesistenti non possono mai raggiungere il livello della novazione del
preesistente rapporto obbligatorio.
3.3.‒ Su queste basi, e tornando al caso in discussione, il reindirizzamento automatico
verso l’offerta flat TUTTO VOCE della clientela che in precedenza si era limitata a
richiedere il servizio per la linea di accesso con fatturazione delle eventuali chiamate a
consumo non poteva essere effettuato tramite il meccanismo “semplificato” di cui
all’art. 70, comma 4, del Codice.
Sotto un primo profilo, la rimodulazione ha inciso su clausole non preesistenti, in
quanto gli utenti incisi erano titolari di un contratto base per linea RTG, senza ulteriori
offerte tariffarie attive.
Sotto altro aspetto, l’operatore non ha apportato semplici modificazioni accessorie
(come quelle di cui all’art. 1231 c.c.), bensì una trasformazione sostanziale delle
preesistenti prestazioni contrattuali (aliquid novi). In particolare, per gli utenti “bassospendenti”,
che non godevano di alcuna offerta flat in precedenza attivata, l’imposizione
di un pacchetto di servizi a prezzo forfettizzato ha modificato due aspetti qualificanti
del regolamento negoziale: la possibilità di pagare le sole chiamate vocali in effetti
eseguite e di non vedersi addebitare alcun costo in caso di mancata esecuzione di
chiamate (salvo importo fisso di abbonamento); la possibilità, per l’utente, di avvalersi
del servizio di chiamata fornito da altri operatori (ad esempio, con i servizi di Carrier
pre-selection forniti da altro operatore).
3.4.‒ Che si sia trattato di una modifica in peius è confermato da un dato documentale
bene messo in risalto dalla difesa erariale (e puntualmente descritto alla pag. 18 della
delibera 61/16/CONS), da cui risulta che, almeno per una porzione dell’utenza
rimodulata, l’allocazione su TUTTOVOCE è risultata economicamente foriera di un
pregiudizio.
In particolare, l’Autorità aveva richiesto alla società di calcolare quanti utenti, dopo la
manovra, continuavano ad effettuare un traffico la cui valorizzazione era inferiore a
cinque euro. Si tratta di quegli utenti, che con l’offerta a consumo, spendevano
mensilmente non più di 24 euro (19 euro di canone + 5 euro, al massimo, di telefonate),
mentre con l’offerta flat hanno dovuto sopportare una spesa fissa mensile di 29 euro,
dunque con un aumento che è stato almeno pari a 5 euro mensili. Moltiplicando
l’aumento di 5 euro per il numero di utenze che ha continuato ad effettuare un traffico
inferiore a 5 euro, l’Autorità ha calcolato che, attraverso la manovra “tariffaria”, la
società ha guadagnato, in appena 6 mesi, oltre 18 milioni di euro, con un aggravio della
propria clientela di pari importo.
3.5.‒ In definitiva, l’attivazione delle nuove offerte TUTTOVOCE richiedeva il
consenso espresso di tutti i clienti che fruivano del servizio di connessione ad una rete
pubblica e di telefonia ma non sulla base di un corrispettivo a forfait.
L’intervento sanzionatorio dell’Autorità costituisce una forma di controllo “esterno”
sull’autonomia contrattuale, volto garantire la reale ed effettiva libertà decisionale del
contraente rispetto ad un bisogno di consumo artatamente indotto dalla scorrettezza
dell’operatore economico.
3.6.‒L’assunto non è contraddetto dalla circostanza che, nell’art. 13 delle condizioni
generali di abbonamento al servizio telefonico di TI, valide per i contratti sottoscritti
sino al 30 giugno 2016, fosse prevista espressamente l’operatività del meccanismo di
tutela opt-out per «ogni modifica relativa al contratto».
È sufficiente osservare che, a fronte di lacune contrattuali o di contratti che presentino
un contenuto differente dalle norme imperative esaminate (quali quelle in esame di
ascendenza euro-unitaria), il diritto dei contratti asimmetrici prescrive l’integrazione
cogente del contratto di utenza.
4.‒ Secondo l’appellante, la particolarità del caso dovrebbe indurre il Collegio a
rimettere alla Corte di Giustizia il seguente quesito pregiudiziale: «Se l’art. 20, paragrafi 1 e
2, della direttiva n. 2002/22/CE osti ad una normativa nazionale, come l’art. 70, commi 1 e 4, del
decreto legislativo n. 259 del 2003, la quale esclude l’applicabilità del meccanismo del recesso,
imponendo invece la preventiva acquisizione di un nuovo consenso da parte dell’ utente, nel caso di
modifiche delle condizioni contrattuali da parte dell’operatore di comunicazione elettronica che non
comportino l’abbonamento a nuovi servizi, come la fonia, i dati, la messaggistica, bensì il mero
passaggio da una tariffa a consumo ad una tariffa a forfait, ferme restando tutte le altre componenti del
rapporto contrattuale».
Ritiene il Collegio che non debba darsi seguito a tale richiesta.
Il sistema del rinvio pregiudiziale, introdotto dall’art. 267 TFUE per assicurare
l’uniformità dell’interpretazione del diritto dell’Unione negli Stati membri, istituisce una
cooperazione diretta tra la Corte di Giustizia e i giudici nazionali, attraverso un
procedimento in cui la determinazione e la formulazione delle questioni pregiudiziali
vertenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione ‒ se necessarie ai fini della
risoluzione della controversia oggetto del procedimento principale ‒ spettano al giudice
nazionale e le parti in causa nel procedimento principale non possono modificarne il
tenore (sentenze Kelly, in C-104/10; Vlaamse Dierenartsenvereniging e Janssens, in C-
42/10, C-45/10 e C-57/10).
Il giudice nazionale ha l’obbligo di garantire la piena efficacia del sistema di rinvio
pregiudiziale, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria
disposizione della legislazione nazionale, senza doverne attendere la previa soppressione
in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (sentenza
Cartesio, in C-210/06, punti 93, 94 e 98).
Qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice
nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi
dell’articolo 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una
questione di interpretazione del Trattato.
La giurisprudenza europea ha, tuttavia, precisato che, dal rapporto fra il secondo e il
terzo comma dell'articolo 267 TFUE, deriva che i giudici di cui al comma terzo
dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello
stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde
consentir loro di decidere.
Tali giudici non sono, pertanto, tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del
diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso
in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito
della controversia.
In sintesi, è stato chiarito che l’obbligo del giudice nazionale di ultima istanza non
sussiste se:
a) la questione di interpretazione di norme comunitarie non è pertinente al giudizio (vale
a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull'esito della lite);
b) la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla corte o comunque il
precedente risolve il punto di diritto controverso;
c) la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non
lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione (c.d.
teoria dell’atto chiaro, sul punto è sufficiente il richiamo alla sentenza capostipite della
Corte del Lussemburgo 6 ottobre 1982, in C-283/81, Cilfit).
Nel caso in esame, tutte le considerazioni sopra svolte inducono il Collegio a ritenere
che sussiste, nella presente controversia, l’ultima delle citate deroghe.
L’invocato art. 20, comma, 4 della direttiva ‒ nello stabilire, con norma riprodotta
letteralmente dall’ordinamento interno: «[g]li abbonati hanno il diritto di recedere dal
contratto, senza penali, all’atto della notifica di proposte di modifiche delle condizioni
contrattuali […]» ‒ è norma finalizzata alla protezione dei consumatori e non
dell’operatore economico. Essa quindi non osta a disposizioni dell’ordinamento
nazionale che innalzino il livello di tutela del contraente debole, senza in alcun modo
ostacolare lo sviluppo delle contrattazioni.
5.‒ Da quanto detto consegue anche l’infondatezza dell’asserito eccesso di potere
giurisdizionale, nonché l’insussistenza dei presupposti per accordare la richiesta
riduzione della sanzione.
6.‒ Le spese di lite del secondo grado di lite possono compensarsi attesa la novità della
questione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente
pronunziando, così provvede:
- respinge l’appello n. 5809 del 2017;
- compensa interamente tra le parti le spese del secondo grado di lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 ottobre 2019 con
l’intervento dei magistrati:
Diego Sabatino, Presidente FF
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
Giordano Lamberti, Consigliere
L'ESTENSORE
Dario Simeoli
IL PRESIDENTE
Diego Sabatino
IL SEGRETARIO