La bolletta non è idonea a dimostrare l’effettiva esistenza del credito

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La bolletta non è idonea a dimostrare l’effettiva esistenza del credito

La bolletta o fattura non è idonea a dimostrare l’effettiva esistenza del credito. Nonostante chi ha emesso la fattura possa, in base a tale documento, ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo, ove nel successivo giudizio di opposizione sia contestato il rapporto principale essa non può costituirne valida prova, dovendo il creditore fornire nuove prove per integrare con efficacia retroattiva la documentazione offerta nella fase monitoria.

( Cassazione civile sez. III, n.17659 del 02/07/2019 )

 

 

Fatti di causa

1. La società Acquedotto Pugliese S.p.a. (d’ora in poi, “AQP”) ricorre, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 5561/16, del 9 giugno 2016, della Corte di Appello di Bari, che accogliendo il gravame esperito dal Comune di Carlantino contro la sentenza n. 29/11, del 20 gennaio 2011, del Tribunale di Lucera – ha accolto l’opposizione, ex art. 645 c.p.c., proposta dal predetto Comune contro il decreto che gli ingiungeva il pagamento, in favore dell’odierna ricorrente, di Euro 153.426,32, quale corrispettivo per il servizio di fornitura di acqua potabile.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente che l’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese, poi divenuto “ex lege” società AQP, sin dal 1988 forniva acqua al Comune di Carlantino, il quale riteneva di avere diritto alla somministrazione gratuita, in ragione del fatto che le opere realizzate per poter procedere alla fornitura dell’acqua alla Piana della Capitanata sottrarrebbero vasti terreni preziosi per l’economia locale.

Riferisce, altresì, l’odierna ricorrente che, nel 1992, interveniva tra le parti una convenzione, destinata a regolare la fornitura d’acqua e il relativo corrispettivo, in ordine alla quale il predetto Comune chiedeva al Ministero competente che venisse riconosciuto il suo diritto alla somministrazione gratuita, vedendosi, tuttavia, opporre un diniego.

Nel 2003, a seguito di ulteriori morosità, la società AQP, non senza aver previamente scritto al Comune di Carlantino per conseguire in via stragiudiziale il pagamento di quanto dovutogli, chiedeva, sulla base di n. 13 fatture emesse ed inviate tra il 1999 e il 2002, un decreto ingiuntivo al Tribunale di Lucera, per l’importo di Euro 153.426,32, oltre interessi.

Proposta dal Comune opposizione, ai sensi, come detto, dell’art. 645 c.p.c., la stessa veniva rigettata dal competente Tribunale.

Esperiva gravame il Comune di Carlantino, conseguendo la riforma dell’impugnata sentenza e, con essa, la revoca del decreto ingiuntivo, sul presupposto dell’assenza di prova in ordine all’esistenza ed entità del credito azionato in via monitoria.

 

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione AQP, sulla base di cinque motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si ipotizza violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4).

Ci si duole dell’inesistenza della motivazione, relativamente all’accoglimento del terzo motivo di gravame fatto valere dal Comune di Carlantino, con il quale esso lamentava il difetto di motivazione, da parte del primo giudice, in ordine alla reale sussistenza del credito azionato da AQP.

La Corte barese, infatti, in pochissime righe, ha affermato che la prova documentale sufficiente per la pronuncia del provvedimento monitorio – nella specie costituita dalle 13 fatture di cui sopra – non risultava, invece, idonea a costituire riscontro del diritto azionato dal creditore ingiungente, soprattutto in presenza di specifica contestazione dell’opponente che investiva “an” e “quantum” del credito.

Assume, per contro, la ricorrente che il Comune di Carlantino avrebbe sempre mirato, “dichiaratamente ed esplicitamente”, solo alla declaratoria di invalidità della convenzione esistente tra esso e AQP, e quindi all’adozione di una sentenza che riconoscesse dovuto un minor importo, rispetto a quello risultante dal provvedimento monitorio, e ciò in base a motivazioni di equità sociale.

Difatti, anche il terzo motivo di gravame, ovvero quello accolto dalla Corte territoriale, nel fare riferimento ad un preteso vizio di motivazione della sentenza del Tribunale di Lucera (segnatamente, in ordine al fatto che AQP non avrebbe provato il proprio credito), recherebbe un esplicito riferimento alla convenzione suddetta, della quale non sarebbe stato rispettato il contenuto in ordine al “quantum debeatur”.

3.2. Con il secondo motivo – proposto anch’esso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si ipotizza violazione dell’art. 342 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4).

Si censura la sentenza impugnata in quanto essa, nel pervenire all’annullamento della decisione del primo giudice, avrebbe “dato rilievo a frasi generiche contenute non nell’atto di citazione in appello, bensì nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado”. La Corte barese, pertanto, avrebbe effettuato “un nuovo esame dell’intero merito della vicenda”, anzichè limitarsi a vagliare “quanto contenuto negli specifici motivi di appello, così come previsto dall’art. 342 c.p.c.”, ciò che l’avrebbe portata erroneamente a disconoscere l’esistenza di un “giudicato sulla non gratuità della fornitura d’acqua”

3.3. Il terzo motivo – proposto, al pari dei precedenti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – deduce violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), “per mancata valutazione di prove agli atti del giudizio e totale assenza di motivazione in merito”.

Si assume l’erroneità della sentenza impugnata, laddove accoglie l’appello affermando non esservi prova delle richieste di AQP.

Per contro, agli atti del giudizio vi sarebbero state innumerevoli prove in tal senso, a cominciare dalla convenzione firmata dal Sindaco del Comune di Carlantino e il Presidente dell’allora Ente Autonomo per l’Acquedotto Pugliese. In particolare, l’art. 3 della stessa stabilisce che la misurazione dei consumi d’acqua venga effettuata mediante un apparecchio installato al punto di consegna, precisando che la lettura dello stesso avvenga in contraddittorio, soggiungendo, però, che in mancanza, per qualsiasi motivo, della firma degli incaricati del Comune farà comunque fede quella degli agenti dell’Ente.

Delle risultanze di tale documento la Corte di Appello non avrebbe – per giunta immotivatamente – tenuto conto, come del resto di quelle derivanti sia dalla missiva con cui il Comune aveva richiesto al Ministero competente (peraltro senza successo) di fruire gratuitamente della somministrazione d’acqua, sia della deposizione testimoniale, resa in altro giudizio, dal segretario comunale di Carlantino, che aveva confermato non solo l’esistenza della convenzione, ma anche la circostanza relativa alla erogazione dell’acqua potabile.

3.4. Il quarto motivo – che è formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e che risulta strettamente correlato al precedente – deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ovvero che AQP aveva provato il proprio credito non esclusivamente tramite le fatture, poste alla base del giudizio monitorio, ma in forza della documentazione testè menzionata.

3.5. Infine, il quinto motivo – proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), ipotizza violazione del “principio generale di realtà”, nonchè dell’art. 101 Cost., comma 2.

Se è vero, osserva la ricorrente, che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, essi “lo sono anche alla realtà cui la legge è intrinsecamente soggetta e finalizzata”, giacchè “non è il fatto che segue il diritto, ma il diritto che segue il fatto”.

Orbene, che il servizio di fornitura dell’acqua potabile sia stato erogato al Comune di Carlantino è realtà, come la circostanza che esso non fosse gratuito e che il Comune abbia perfino riscosso canoni dai cittadini in relazione al servizio stesso. Analogamente, è realtà pure che le letture su quanto erogato facciano fede in assenza di firma dei funzionari comunali, come la circostanza che l’ammontare delle fatture allegate al ricorso monitorio non sia state oggetto di contestazione.

Di conseguenza, anche su tali basi, la ricorrente chiede la cassazione della sentenza impugnata.

3. Ha resistito il Comune di Carlentino, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, il rigetto.

In particolare, la declaratoria di inammissibilità del ricorso viene motivata sul rilievo che esso non avrebbe neppure individuato le parti della sentenza impugnata oggetto di censura.

In ogni caso, l’inammissibilità o l’infondatezza della proposta impugnazione deriverebbe dal fatto che la Corte di Appello di Bari avrebbe adeguatamente motivato le ragioni di accoglimento del gravame proposto dal Comune di Carlantino, ritenendo non esservi prova in ordine al an” e al “quantum” del credito azionato in via monitoria, non essendo idonee a tale scopo le fatture già allegate al ricorso ex art. 633 c.p.c..

Il vero tema, quindi, oggetto del giudizio concerneva la corretta applicazione o meno dell’art. 2697 c.c., problematica completamente elusa dalla proposta impugnazione.

5. La ricorrente ha presentato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

 

Ragioni della decisione

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo non è fondato.

6.1.1. La Corte barese – nel pronunciarsi sul terzo motivo di appello del Comune di Carlantino, che assumeva “l’assenza di prova in ordine all’effettiva quantità erogata di acqua”, evenienza, questa, che “non avrebbe consentito in alcun modo l’applicazione delle tariffe agevolate che comunque sarebbero spettate in virtù della convenzione del 21/12/1992” (della quale, peraltro, con il secondo motivo di gravame, ed in via di principalità, l’appellante negava l’efficacia) – ha rilevato che le tredici fatture versate in atti, “in quanto documenti di provenienza unilaterale della stessa parte che ha inteso utilizzarle e in presenza di oggettiva contestazione in ordine all’effettiva erogazione del servizio, sia nell’”an” che nel “quantum”, non sono sufficienti per l’effettiva dimostrazione del credito azionato”.

Ciò detto, la sentenza impugnata si sottrae alla censura di carenza di motivazione.

Difatti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 63778101; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, utilmente ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

Nessuna di tali evenienze ricorre nella specie, essendosi la sentenza – dichiaratamente – attenuta al principio, enunciato ripetutamente da questa Corte e secondo cui la “fattura è titolo idoneo per l’emissione di un decreto ingiuntivo in favore di chi l’ha emessa, ma nell’eventuale giudizio di opposizione la stessa non costituisce prova dell’esistenza del credito, che dovrà essere dimostrato con gli ordinari mezzi di prova dall’opposto” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, sent. 11 marzo 2011, n. 5915, Rv. 617411-01).

6.2. Il secondo motivo, del pari, non è fondato.

6.2.1. Il riferimento all’atto di citazione in opposizione, contenuto nella sentenza impugnata, lungi dall’essere espressione di “commistione” tra censure svolte in primo e secondo grado, era solo, per così dire, “funzionale” alla necessità del rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’atto di appello, per genericità dello stesso, sollevata da AQP ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

Deve, pertanto, escludersi che la Corte barese abbia disatteso il principio relativo al carattere devolutivo dell’atto di appello.

6.3. I motivi terzo, quarto e quinto – che sono suscettibili di trattazione unitaria, in quanto si risolvono nel tentativo di sollecitare questa Corte ad un rinnovato apprezzamento del materiale probatorio in atti – non sono suscettibili di accoglimento.

6.3.1. Per un verso, infatti, deve farsi applicazione del principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).

Il tutto, peraltro, senza tacere del fatto che le prove asseritamente obliterate dal giudice di appello offrono riscontro, al più, all’esistenza dell’erogazione d’acqua e alla non gratuità della stessa, ma non pure all’entità dell’erogazione (ciò che costituisce ragione sufficiente ad escludere l’accoglimento della domanda di pagamento, essendo rimasta indeterminata l’entità del credito pecuniario azionato), al netto del rilievo – valido, specificamente, per la deposizione resa, in altro giudizio, dal segretario comunale di Carlantino – secondo cui “le prove raccolte in un diverso giudizio danno luogo ad elementi meramente indiziari”, sicchè, “la mancata valutazione di tali prove non è idonea ad integrare il vizio di motivazione, in quanto il difetto riscontrato non può costituire punto decisivo, implicando non un giudizio di certezza ma di mera probabilità rispetto all’astratta possibilità di una diversa soluzione” (Cass. Sez. 1, ord. 19 febbraio 2018, n. 3960, Rv. 647419-01).

6.3.2. Infine, è appena il caso di rilevare che non giova al ricorrente neppure il riferimento – compiuto con la memoria depositata in vista dell’adunanza camerale di questa Corte – al principio secondo cui, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte (è richiamata Cass. Sez. Un., sent. 30 ottobre 2001, n. 13533, Rv. 549956-01).

Nella specie, infatti, ciò che manca è proprio la prova dell’entità del credito pecuniario azionato (non potendo valere, nel giudizio ex art. 645 c.p.c., le fatture poste alla base del provvedimento monitorio), evenienza che ha comportato il rigetto della pretesa azionata.

7. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.

8. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società Acquedotto Pugliese S.p.a, a rifondere al Comune di Carlantino le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.200,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, più spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 3 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2019

 

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