La rinuncia all’azione costituisce un atto di disposizione del diritto in contesa

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La rinuncia all’azione, ovvero all’intera pretesa azionata dall’attore nei confronti del convenuto, costituisce un atto di disposizione del diritto in contesa e richiede, in capo al difensore, un mandato “ad hoc”, senza che sia a tal fine sufficiente quello “ad litem”, in ciò differenziandosi dalla rinuncia ad una parte dell’originaria domanda, che rientra fra i poteri del difensore quale espressione della facoltà di modificare le domande e le conclusioni precedentemente formulate.

( Cassazione civile sez. II, 19/02/2019, n.4837 )

 

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

  • Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
  • Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
  • Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
  • Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
  • Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

Sentenza

sul ricorso 23177-2014 proposto da M.C., M.E., M.L., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA RUGGIERO FAURO 13, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO PIZZI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO GISMONDI; – ricorrenti – contro C.A.A., R.D., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PIEMONTE 39, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNETTI ALESSANDRA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato CANALE GUIDO; – ricorrenti successivi – contro CA.AN.MA., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALBENGA 45, presso lo studio dell’avvocato RITA BRANDI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIAN FRANCO VIALE; T.M.L., (Ndr: testo originale non comprensibile) elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALBENGA 45, presso lo studio dell’avvocato RITA BRANDI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIANFRANCO VIALE; T.M.L., T.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALBENGA 45, presso lo studio dell’avvocato RITA BRANDI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIAN FRANCO VIALE; – controricorrenti ai ric. – e contro S.S., quale curatore eredità giacente di T.G.B.; – intimata – avverso la sentenza n. 1118/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 10/06/2014;

  • udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/10/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;
  • udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;
  • udito l’Avvocato GIOVANNETTI Alessandra, difensore dei ricorrenti successivi che ha chiesto l’accoglimento del ricorso successivo.

 

I fatti di causa

C.A.M. convenne in giudizio L. e M.C., nonchè C.A.A. e R.D., chiedendo che fosse accolta domanda di negatoria servitutis, volta a far cessare la turbativa, fonte di danno ingiusto,

consistita nell’indebita occupazione del sottotetto di un edificio condominiale, del quale l’attrice era divenuta proprietaria per atto traslativo dell’8/10/2003, stipulato con R., P., M. e T.G.B. e che la stessa aveva trasformato dallo stato grezzo in due unità abitative, per le quali era intervenuta sanatoria edilizia, dopo che l’assemblea condominiale del 15/6/2006 aveva deliberato di non volere intraprendere azione legale avversativa.

I M., oltre ad opporsi alla domanda, in via riconvenzionale chiedevano dichiararsi la nullità dell’atto d’acquisto del sottotetto poichè avvenuto a non domino e accertarsi, inoltre, la simulazione assoluta del negozio.

Chiamati in causa i T. e costituitisi i C./ R., i quali, oltre a richiedere il rigetto della domanda, eccepivano di aver usucapito il bene e costituitisi, altresì, i T. ( M.E. e R., quali eredi di P.G., dando atto che era deceduto anche G.B.), i quali contrastavano le prospettazioni delle parti convenute, altresì invocando declaratoria d’inammissibilità della promossa riconvenzionale attesa la natura dell’azione negatoria di parte attrice, ulteriormente chiamata in giudizio l’eredità giacente di T.G.B., che non si costituiva, riuniti i due processi instaurati, il Tribunale adito dichiarò inefficace l’atto di vendita dell’8/10/2003, intervenuto tra l’attrice e i fratelli T., quali ex soci della P.B.R. Immobiliare s.r.l., e l’assorbimento delle domande (rectius: eccezione riconvenzionale, secondo il narrato dei C./ R.) subordinate d’acquisto per usucapione avanzate dai convenuti.

La Corte di Appello di Torino, decidendo sull’impugnazione avanzata da Ca.An.Ma., in riforma della sentenza di primo grado, dichiarata illegittima l’occupazione del sottotetto, di proprietà di Ca.An.Ma., da parte degli appellati M.C. e M.L., nonchè di C.A.A. e R.D., condannò gli appellati al rilascio e al risarcimento del danno da liquidarsi in altro giudizio, regolando di conseguenza le spese.

Avverso quest’ultima statuizione E., L. e M.C. propongono ricorso, articolando cinque motivi di doglianza.

Propongono, altresì ricorso C.A.A. e R.D., esponendo, del pari, cinque censure. Ca.An.Ma. resiste con due controricorsi, rispettivamente avversativi dei due ricorsi. Del pari T.M.E. resiste con due controricorsi, rispettivamente avversativi dei due ricorsi.

Hanno depositato memorie illustrative i M., i C./ R., nonchè i T..

 

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo i M. denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,342 e 345 c.p.c., nonchè “illogica, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5”. Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori. – correttamente il Tribunale aveva disatteso la domanda di negatoria servitutis, poichè gli attori avevano ammesso di essere privi di valido titolo di acquisto;

  • per contro, i fratelli M. avevano regolarmente acquistato uno dei quattro appartamenti posti all’ultimo piano dell’edificio “con l’accessione e pertinenza della porzione di sottotetto”,godendone quali proprietari, da Re.Al., il quale, a sua volta, aveva legittimamente acquistato, il 14/6/1974, quanto poi alienato:
  • la Corte d’appello, si era illegittimamente sostituita agli appellanti, specificandone ed integrandone le incompiute censure impugnatorie;
  • gli appellanti avevano proposta domanda nuova in secondo grado, che la Corte locale avrebbe dovuto dichiarare inammissibile.

1.1. La doglianza è priva di fondamento.

a) Deve escludersi che il giudice d’appello decise su domanda nuova, in quanto l’affermazione secondo la quale gli appellanti avrebbero ammesso di essere sforniti di titolo costituisce un mero asserto congetturale dei ricorrenti, tratto da una interpretazione di parte delle emergenze di causa. Inoltre, non par dubbio che i ricorrenti non colgono la ratio decidendi: la sentenza si è limitata a chiarire quale sia il perimetro dell’onere probatorio di colui che agisce in negatoria servitutis e non in rivendica, occorrendo solo nel secondo caso fornire la prova rigorosa della proprietà, pur con la mitigazione della dimostrazione dell’ultraventennalità; mentre nel primo, poichè non si tratta di accertare la proprietà, è sufficiente dimostrare, oltre al possesso, l’esistenza di un valido titolo (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 472, 11/1/2017). L’ultrapetizione si configura laddove il giudice riconosca un diritto oltre i limiti segnati dalla domanda e giammai avuto riguardo agli argomenti giuridici e alla interpretazione e sussunzione dei fatti rilevanti di causa.

b) Sotto altro profilo deve osservarsi che il giudice dell’appello, fermo restando l’onere della parte di rispettare la griglia di cui all’art. 342 c.p.c., esercitando il proprio potere-dovere di interpretare le censure non si sostituisce affatto ed impropriamente all’impugnante. Nè i ricorrenti specificano, con la necessaria puntualità, in cosa sia consistita la sostituzione del Giudice dell’appello alla parte appellante. Peraltro, deve ricordarsi che l’appello rappresenta un mezzo di gravame che assegna al giudice il potere di nuovamente decidere, con i medesimi poteri del giudice di primo grado e attraverso una nuovo vaglio di tutte le questioni già esaminate, con una pronuncia che ha natura ed effetto sostitutivi di quella gravata. Il suo effetto devolutivo pieno, pur nei limiti della devoluzione, attribuisce al giudice dell’appello il medesimo potere di interpretazione delle domande e delle eccezioni, sancito nell’art. 112 c.p.c., che è già stato compiuto dal giudice precedente (cfr. Sez. 5, n. 8929, 29/4/2005).

c) Infine, occorre soggiungere che il motivo, ridondante e non sempre lineare, piuttosto che muovere precipue critiche alla ratio decidendi (salvo quella inconcludente sub a) riporta, con ripetitiva insistenza, le difese di merito.

2. Con il secondo motivo viene prospettata violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,342 e 145 c.p.c., nonchè “illogica, insufficiente, contraddittoria motivazione”, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

  • superfluamente la Corte d’appello aveva qualificato l’avversa domanda quale negatoria servitutis, senza cogliere che l’accoglimento di una tale domanda avrebbe presupposto
  • l’accertamento “di un titolo valido di proprietà”, invece, i C./ R. avevano acquistato dalla Ca. e questa dai T. a non domino, stante che quest’ultimi, succeduti alla estinta società costruttrice dell’edificio, non vantavano titolo alcuno;
  • il Giudice d’appello aveva scrutinato una domanda degli appellanti, da qualificarsi nuova, in quanto costoro in primo grado avevano dichiarato di non vantare valido titolo proprietario;
  • gli appellanti avevano, con la comparsa conclusionale di primo grado, rinunziato definitivamente alla domanda e la rinuncia in parola non avrebbe potuto essere considerata come subordinata, in guanto poneva un contrasto irrisolvibile, tra l’avere e il non avere un valido titolo.

2.1. Il motivo non merita accoglimento.Come per la precedente censura, a dispetto dei toni alti e della pluralità di norme denunziate come disattese, la critica consiste in una ripetizione delle tesi sconfessate in sede d’appello, largamente già illustrate con il primo motivo.

Quanto alla pretesa rinuncia alla domanda, la Corte d’appello, alle pagg. 28 e 29 della sentenza, chiarisce nitidamente che la Ca., ben lungi dall’aver voluto rinunziare alla domanda, si era limitata, in comparsa conclusionale, nel caso in cui, affermatasi l’estinzione della società costruttrice alla data dell’1/1/2004, secondo le indicazioni di cui alla sopravvenuta sentenza n. 4060/2010 delle S.U. (peraltro richiamato nella predetta comparsa a sproposito, poichè il principio non si applicava alle società di capitali, come puntualmente fatto rilevare dalla sentenza d’appello), fosse risultata soccombente, ad invocare la compensazione integrale delle spese di primo e secondo grado, assumendo che si sarebbe dovuto constatare, in un simile caso, un’ipotesi di overrulling.

In disparte, è appena il caso di soggiungere che la rinuncia all’azione, ovvero all’intera pretesa azionata dall’attore nei confronti del convenuto, costituisce un atto di disposizione del diritto in contesa e richiede in capo al difensore, un mandato ad hoc, senza che sia a tal fine sufficiente il mandato ad litem, in ciò differenziandosi dalla rinuncia ad una parte dell’originaria domanda, che rientra fra i poteri del difensore, in quanto espressione della facoltà di modificare le domande e le conclusioni precedentemente formulate (Sez. 2, n. 28146, 17/12/2013, Rv. 629194). E’ utile riportare la parte motiva della sentenza, la cui massima è stata immediatamente sopra riportata: “E’ vero che, secondo la giurisprudenza richiamata dal ricorrente, la rinuncia alla domanda o ai suoi singoli capi, qualora si atteggi come espressione della facoltà della parte di modificare ai sensi dell’art. 184 c.p.c. le domande e le conclusioni precedentemente formulate, rientra fra i poteri del difensore (che in tal guisa esercita la discrezionalità tecnica che gli compete nell’impostazione della lite e che lo abilita a scegliere in relazione anche agli sviluppi della causa la condotta processuale da lui ritenuta più rispondente agli interessi del proprio rappresentato), distinguendosi così sia dalla rinunzia agli atti del giudizio, che può essere fatta solo dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale nelle forme rigorose previste dall’art. 306 c.p.c., e non produce effetto senza l’accettazione della controparte, sia dalla disposizione negoziale del diritto in contesa, che a sua volta costituisce esercizio di un potere sostanziale spettante come tale alla parte personalmente o al suo procuratore munito di mandato speciale, siccome diretto a determinare la perdita o la riduzione del diritto stesso (Cass. 4-2-2002 n 1439; Cass. 8-1-2002 n. 140; Cass. 7-3- 1998 n. 2572). E’ altrettanto vero che, nonostante la natura semplicemente illustrativa della comparsa conclusionale, questa Corte ha costantemente ammesso la possibilità di rinunciare, per mezzo di essa, a qualche capo di domanda, con correlativa restrizione del thema decidendum (Cass. 25-8-1997 n. 7977), essendosi precisato che, dopo la precisazione delle conclusioni, è vietato estendere il thema decidendum, attraverso nuove domande ed eccezioni che non potrebbero essere confutate ‘ex advers’ò, ma non restringerlo, mediante rinuncia a qualche capo di domanda o a qualche eccezione (Cass. 23-7-1971 n. 2434; Cass. 27-2-1965 n. 334, Cass. 22- 4-1963 n. 1018). 1 principi innanzi enunciati, tuttavia, non si attagliano alla fattispecie in esame, nella quale non si è in presenza di una mera rinuncia ad una parte dell’originaria domanda, bensì, come rilevato nella sentenza impugnata, di una rinuncia (oltre che agli atti del giudizio) all'”azione” proposta nei confronti di A.A. e, quindi, all’intera pretesa azionata contro uno dei convenuti. Ma, come è noto, la rinuncia all’azione, costituendo un atto di disposizione del diritto in contesa, richiede in capo al difensore un mandato speciale ad hoc, non essendo a tal fine sufficiente il mandato ad litem”.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,115,116 e 342 c.p.c. nonchè “illogica, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione”, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

– la sentenza d’appello non aveva “individuato in quali errori sarebbe incorsa la puntuale pronuncia del primo giudice”;

– la Corte d’appello aveva interpretato il sostantivo “sottotetto”, assegnandogli un significato improprio, trattandosi, al contrario di quanto sostenuto in sentenza, di “uno spazio utilizzabile limitatamente sotto la cuspide di un tetto triangolare da casa di montagna perchè la neve possa scivolare e dove la persona può stare eretta soltanto in una ristretta area centrale, non è che una soffitta”, avente lo scopo d’isolamento e di ripostiglio e proprio per questo non era statoaccatastato; inoltre il predetto sottotetto era stato incluso tra le parti comuni dal regolamento condominiale;

  • non trovava riscontro l’asserto secondo il quale la società costruttrice (PBR srl) avrebbe venduto ad Re.Al. e poi quest’ultimo ai M., oltre ad uno dei quattro appartamenti all’ultimo piano, tra i richiamati accessori e pertinenze, anche la porzione del sottotetto;
  • nè costituiva contraddizione la circostanza che gli appellati avessero proposto, in via subordinata, domanda d’usucapione, avendo costoro il diritto pieno di difendersi nel modo più confacente;
  • era frutto di congettura priva di fondamento l’affermazione secondo la quale la società costruttrice, nella fase della liquidazione, avesse trasferito ai suoi soci, oltre ai quattro appartamenti e ai cinque posti auto di proprietà, anche il sottotetto, che, invece, era stato venduto dieci anni prima dalla predetta società “in 4 porzioni quali accessioni e pertinenze rispettive dei 4 appartamenti dell’ultimo piano abitabile dell’edificio, consegnando le chiavi d’accesso al sottotetto ed all’appartamento ad ognuno dei primi 4 acquirenti”;
  • non era da reputarsi logico che il liquidatore della società, evidentemente persona esperta in materia, si fosse dimenticato di riportare tra i beni esistenti al momento dello scioglimento anche il sottotetto e la spiegazione fornita dal Giudice dell’appello non appariva convincente, senza considerare che il liquidatore non avrebbe potuto richiedere la cancellazione della società se fossero rimaste in proprietà della stessa altri beni;
  • la vendita del sottotetto, in quote, ai primi acquirenti degli appartamenti posti all’ultimo piano trovava riscontro in quanto dichiarato dallo stesso amministratore della società, T.P., risultando dal verbale della riunione condominiale del 4/1/1976: “il sig. T. dichiara che ha venduto allo stato naturale grezzo e non può adibirlo il sig. D.M. o successori come abitazione civile”;

3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto palesemente diretto ad un riesame di merito delle valutazioni della Corte distrettuale.

I ricorrenti assegnano un contenuto del tutto difforme, rispetto al vigente testo, all’art. 360 c.p.c., n. 5, invocando il sindacato sulla motivazione, oramai abolito, peraltro, avversando un costrutto motivazionale completo e coerente.

Una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (il richiamo all’art. 113 c.p.c., è chiaramente ridondante e quello all’art. 342 c.p.c., per quel che prima si è detto, senza fondamento) non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299); di conseguenza il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione (Sez. 3, 23940, 12/10/2017, Rv. 645828), oramai all’interno dell’angusto perimetro delineato dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

4. Con il quarto motivo si allega violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., art. 1140 c.c., comma 1 e art. 1146 c.c., comma 2, nonchè “illogica, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione”, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

  • era stata fornita la prova del continuativo possesso dei ricorrenti per oltre un ventennio, nel mentre i fratelli T. mai avevano posseduto il sottotetto, nè vantato diritti sullo stesso nel corso dei molti anni trascorsi;era errata l’affermazione di cui alla sentenza impugnata, secondo la quale i M. avevano cominciato a possedere solo dal 1990, possesso che sarebbe stato interrotto dalla Ca. nel 2007, invece “a norma dell’art. 1146 c.c., comma 2, il possesso dei M. si è aggiunto al possesso del Re. e per tale ininterrotto congiungimento basta la traslazione del bene e delle sue chiavi d’accesso”;

4.1. Il motivo è inammissibile.

Trattasi per la gran parte di riproposizione, ancora una volta, delle tesi e critiche di merito di parte, alle quali la sentenza d’appello ha fornito nitida, motivata risposta, a prescindere dalla condivisibilità delle conclusioni di merito alle quali giunge. Anche in questo caso le violazioni di legge denunziate scontano una ricostruzione fattuale del giudice non condivisa dai ricorrenti. La critica con la quale i ricorrenti, in fine pag. 25, contestano che il possesso loro siasi iniziato solo dal 1990 e interrotto dalla Ca. nel febbraio del 2007, senza che la Corte d’appello avesse tenuto conto del precedente possesso dei Re., non coglie la ratio decidendi, avendo la Corte locale escluso in radice la configurabilità del vantato possesso. In particolare, a pag. 39, in fine, la sentenza qualifica come comodato la relazione che legava, per graziosa concessione dei T., i C. al sottotetto e una tale conclusione non risulta essere stata precipuamente censurata.

5. Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,115,116 e 244 c.p.c., artt. 1158,1803 e 931 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Questi, in sintesi, gli assunti impugnatori:

  • non poteva condividersi l’esclusione delle proposte prove, sia documentali, che orali, le quali erano tutte concludenti ed in particolare: a) i documenti provavano l’inizio del ventennio dal 14/6/1974; b) la prova orale andava vista nel suo insieme, unitamente a quella documentale; c) i singoli capi erano tutti ammissibili e a tal fine il ricorso li esamina partitamente;
  • era illogico e privo di riscontro l’asserto secondo il quale i T. sarebbero stati al corrente dell’abuso consumato sulla loro proprietà.

5.1. Anche quest’ultimo motivo è inammissibile. Con la doglianza in esame i ricorrenti invocano un riesame in sede di legittimità delle scelte istruttorie del giudice del merito e delle quali quest’ultimo ha fornito dettagliata ragione (pagg. 38 e 39 della sentenza) ed anche in questo caso, disegnano un quadro fattuale diverso da quello fatto proprio dalla sentenza d’appello, sulla scorta del quale correttamente le istanze probatorie vennero disattese per irrilevanza, genericità e intrinseca inammissibilità.

6. Occorre ora passare ad esaminare il ricorso dei C./ R.. Questi con il primo motivo prospettano la nullità della sentenza e del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere la Corte locale pronunciato ultra petitum, in quanto:

  • nella comparsa conclusionale di primo grado la Ca. avevano rinunciato alla domanda e la Corte d’appello aveva errato nel valutare una tale rinunzia come un “rilievo subordinato”;
  • la rinuncia alla domanda, a differenza della rinunzia all’azione, non richiede forme particolari, nè tantomeno l’accettazione della controparte e, di conseguenza, la sentenza aveva violato l’art. 112 c.p.c.;

6.1. Il motivo deve essere rigettato sulla scorta di quanto in precedenza chiarito a riguardo della seconda doglianza dei M..

7. Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 817,949 e 1117 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Questi, in sintesi, gli assunti censuratori:

  • l’actio negatoria servitutis presuppone l’accertamento della proprietà e un tale accertamento, a dispetto di quanto sostenuto in sentenza, non era stato raggiunto, poichè non era vero che tuttoil fabbricato, incluso il sottotetto, era divenuto di proprietà della società costruttrice a titolo originario ex art. 934 c.c., poichè il predetto piano faceva parte, per regolamento condominiale, delle parti comuni, siccome aveva accertato il geom. B. e, pur vero che non risultava annoverato fra le parti comuni, ma, tenuto conto della destinazione era da ritenersi condominiale, in assenza di contrario titolo;
  • peraltro, i ricorrenti avevano sempre sostenuto che il sottotetto costituiva una pertinenza della loro unità abitativa;
  • la questione se il predetto locale fosse di proprietà condominiale o dei ricorrenti restava ininfluente ai fini della presente causa, essendo escluso che si potesse attribuire in proprietà ab origine alla società costruttrice.

7. 1. La doglianza non è fondata.

A parte la contraddittorietà della esposizione, la quale assume, ad un tempo, che il sottotetto fosse condominiale e dei ricorrenti, non ha trovato conferme autosufficienti l’asserto secondo il quale il regolamento avrebbe incluso il sottotetto tra le parti comuni, senza contare che sarebbe occorso un regolamento negoziale. Peraltro, pacificamente la giurisprudenza di questa Corte assegna il sottotetto al condominio solo se esso risulti in concreto, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune (ex multis, Sez. 6, n. 17249, 12/8/2011; Sez. 2, n. 18091, 19/12/2002), il che non consta.

Nel resto la critica, anche laddove rivendica l’esclusiva proprietà dei ricorrenti, ha carattere meramente fattuale e, solo attraverso una ricostruzione della vicenda alternativa a quella rispetto a quanto apprezzato dalla sentenza di merito, assume violazioni di legge, che, posta la diversa ricostruzione effettuata dalla predetta sentenza, non sussistono.

8. Con il terzo motivo il ricorso lamenta l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, stante che la sentenza censurata, affermando l’acquisto ex art. 934 c.c., da parte della costruttrice, non si era confrontata con taluni fatti decisivi e, in particolare, con il contenuto dell’atto di assegnazione degli immobili ai soci, in sede di scioglimento della società, che non faceva menzione alcuna del sottotetto, non potendosi ritenere concludente l’apodittico asserto, con il quale la sentenza deprivava di significato la circostanza, affermando che non si poteva “sensatamente affermare che la società prima e gli assegnatari poi non ne avessero la proprietà”; inoltre, nell’atto di acquisto dai T. alla Ca., invece che richiamare la pienezza del titolo, i venditori, contraddittoriamente dichiaravano di essere nel possesso del sottotetto, che era “di sua piena ed esclusiva proprietà per esserne al pubblico, pacifico ed incontrastato possesso da oltre un ventennio”.

8.1. La doglianza è infondata.

L’omesso esame non sussiste perchè la corte d’appello ha preso in esame entrambi i documenti (cfr. i p.p. 4 e 4.1. della sentenza) e giunge alla conclusione che l’atto d’assegnazione aveva incluso, sia pure implicitamente, il sottotetto, restando irrilevanti “opinioni personali; pareri tecnici; delibere condominiali; missive scambiate; apparenza di proprietà; verosimiglianza od inverosimiglianza di comportamenti delle parti o danti causa, che a piene mani e con interessata confusione sono stati profusi in questo giudizio”, assumendo rilievo, in via esclusiva, la catena dei passaggi proprietari, siccome ricostruita. In disparte è appena il caso di soggiungere che non rileva, ad ammetterla fondata, l’osservazione che ai soci non fosse stato trasferito espressamente il sottotetto, poichè se lo stesso era di proprietà della società costruttrice ex art. 934 c.c., l’assegnazione dell’universalità residuata allo scioglimento non poteva che andare ai soci.

9. Con il quarto e il quinto motivo, tra loro osmotici, i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione dell’art. 817 c.c. e art. 1146 c.c., comma 2 e art. 1158 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè “omesso esame delle deduzioni istruttorie (…) e conseguente vizio ex art. 360 c.p.c., n. 4)”. Questi, in sintesi, gli assunti censuratori:

  • la sentenza aveva errato nel ritenere che per la continuità del possesso del sottotetto gli appellati avrebbero dovuto dimostrare che il titolo traslativo includesse un tal possesso e la giurisprudenza dalla medesima evocata, oltre che riguardare il possesso di servitù intavolata, risultava essere stata superata;
  • al contrario di quanto aveva opinato la Corte d’appello era ben possibile, in conformità dell’orientamento di legittimità, per il compossessore pro-indiviso conseguire il possesso
  • esclusivo di una porzione;
  • le istanze istruttorie dei C./ R., dirette alla prova dell’usucapione, non erano state in alcun modo vagliate.

9.1. Entrambe le censure, tra loro collegate, sono inammissibili.

Non occorre vagliare la critica di cui al quarto motivo poichè deve constatarsi l’esistenza di due autonome rationes decidendi e una d’esse non viene attinta dal motivo in esame.

La Corte locale, invero, ha affermato (pag. 39 della sentenza) che il rapporto di fatto col sottotetto dei C./ R. andava qualificato detenzione, derivando da un negozio di comodato, dovendosi, inoltre, constatare la mancata allegazione di alcuno degli atti di cui all’art. 1141 c.c., comma 2. Avverso l’esposta ratio decidendi non consta essere stata avanzata doglianza. Per ragioni dipendenti e collegate anche il quinto motivo segue lo stesso destino: gli articoli di prova riportati mirano a dimostrare il potere di fatto sulla cosa, ma non l’animus possidendi, nè il compimento di uno degli atti di cui all’art. 1141 c.c., comma 2, (mutamento della detenzione in possesso).

10. Le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate.

11. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte dei ricorrenti, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

 

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per Ca.An.Ma., in Euro 7.000,00 e in egual misura di Euro 7.000,00 per M.L. e T.R., per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge per ciascuna delle due parti controricorrenti.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2019

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