L’onere della prova nelle azioni di accertamento negativo

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L’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto’ fatti negativi’, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo.

(Fattispecie relativa all’azione avviata da alcuni correntisti nei confronti di una banca, con la quale si contestava il saldo negativo del conto corrente sotto il profilo, tra l’altro, dell’anatocismo e dell’usurarietà dei tassi di interesse applicati).  ( Cassazione civile sez. I, 07/05/2015, n.9201)

 

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

  • Dott. RORDORF Renato – Presidente –
  • Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –
  • Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –
  • Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
  • Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso 14853/2013 proposto da N.C.P. (c.f. (OMISSIS)), S.P. M. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SILVIO PELLICO 16, presso l’avvocato GARCEA FRANCO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO COLAUTTI, giusta procura a margine del ricorso; – ricorrenti – contro BANCA POPOLARE DI VICENZA S.C.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OMBRONE 14, presso l’avvocato LA SCALA GIUSEPPE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARINO FERRO, giusta procura in calce al controricorso; – controricorrente – avverso la sentenza n. 465/2012 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 05/07/2012; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/03/2015 dal Consigliere Dott. VITTORIO RAGONESI; udito, per i ricorrenti, l’Avvocato FRANCO GARCEA che ha chiesto l’accoglimento del ricorso; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, per il rigetto dei motivi secondo e terzo e assorbimento del quarto.

 

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 12.4.2001, N.C. P. e S.P.M. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Udine la Banca Popolare di Vicenza s.c. a r.l.

esponendo: a) che erano titolari del c/c n. (OMISSIS) acceso presso la sede di (OMISSIS) della Banca Popolare Udinese, ora Banca Popolare di Vicenza; b) che il predetto conto risultava assistito da un’apertura di credito di L. 50.000.000; c) che al 30.9.2000 il conto corrente del suddetto rapporto bancario presentava un saldo negativo di L. 47.958.655; d) che il saldo a debito costituiva la risultante dell’illegittima capitalizzazione degli interessi praticati dalla Banca in uno con l’applicazione del saggio effettivo in relazione al quale vi era ragione di ritenere che vi era stato sfondamento del tasso soglia; e) che era interesse degli attori accertare il quantum da essi effettivamente dovuto; f) che relativamente al diritto alla restituzione degli interessi pagati in eccedenza rispetto al dovuto, risultava applicabile l’art. 2033 c.c., e che la prescrizione decennale doveva essere fatta decorrere dalla chiusura definitiva del rapporto. Ciò premesso gli attori chiedevano che: a) venisse accertato il credito effettivamente dovuto alla Banca, previo riconteggio di tutte le competenze a qualsivoglia titolo addebitate dall’inizio dei rapporti sino all’estinzione degli stessi, prendendo a riferimento l’interesse semplice ovvero, in via subordinata, prendendo a riferimento la capitalizzazione periodica annuale ovvero quella semestrale, con conseguente condanna della convenuta banca alla restituzione degli importi indebitamente addebitati da determinarsi in corso di causa, oltre al pagamento degli interessi di legge e della rivalutazione; b) venisse accertata l’eventuale usurarietà dei tassi applicati e conseguentemente la nullità delle clausole contrattuali applicate e la non debenza degli interessi ovvero, in via subordinata la debenza degli stessi nella misura del tasso legale ovvero nei limiti del c.d. “tasso soglia”, con conseguente condanna della convenuta banca alla restituzione degli interessi percepiti laddove ritenuti usurari da determinarsi in corso di causa, oltre al pagamento degli interessi di legge e della rivalutazione.

Si costituiva la convenuta deducendo che: a) il rapporto di c/c era stato acceso l’11.3.1976 e che il fido di iniziali L.5.000.000 era stato ampliato da ultimo con contratto 12.5.1997; b) con missiva 5.10.1998 era stato revocato l’affidamento e richiesto il rientro dell’esposizione pari a L. 76.223.737, riconosciuta dallo stesso N.; c) la Banca era creditrice, alla data del 23.8.2001 dell’importo di Euro 57.042.853; d) la capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi della Banca era stata riconosciuta dalla giurisprudenza fino alla primavera del 1999; e) per il periodo anteriore e fino all’inizio del rapporto nulla potevano pretendere gli attori per effetto del riconoscimento degli usi di piazza; f) il preteso credito era prescritto in quanto il dies a quo decorreva dall’accreditamento; g) non era stata superata la soglia prevista dalla normativa antiusura.

Ciò premesso la Banca chiedeva il rigetto delle domande attoree ed, in via riconvenzionale, la condanna degli attori – ciascuno pro quota – alla restituzione delle somme anticipate sul conto corrente, oltre agli interessi contrattuali e di mora, entro i limiti della normativa antiusura dall’1.4.2001 fino al saldo effettivo. Disposta C.T.U. contabile, con sentenza n. 904/2008, il Tribunale di Udine rigettava le domande attrici condannando gli attori al pagamento della somma di Euro 11,453,15, oltre interessi contrattuali e di mora dall’1.4.2001 all’effettivo saldo nonchè al pagamento della metà delle spese processuali e di CTU compensando la restante metà.

Avverso la predetta sentenza gli attori proponevano appello fondandolo su quattro articolati motivi.

Si costituiva la Banca chiedendo il rigetto dell’appello.

La Corte d’appello di Trieste, con sentenza 445/13,in parziale accoglimento dell’appello ed in riforma dell’impugnata sentenza Tribunale di n.904/08 dd.20.5/16.6.2008, condannava la Banca Popolare di Vicenza Soc. Coop. a r.l. al pagamento, in favore di N. C.P. e S.P.M., dell’importo di Euro 9.031,77, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo;

provvedeva sulle spese.

Avverso la detta sentenza ricorrono per cassazione il N. C. e la S. sulla base di tre motivi, illustrati con memoria, cui resiste con controricorso la Banca popolare di Vicenza.

 

Motivi della Decisione

Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 2697 c.c., in tema di onere della prova, perchè, una volta negata la valenza probatoria di un estratto conto parziale, risultando indimostrata la correttezza dell’appostazione contabile passiva-iniziale nell’ipotesi in cui la Banca si assuma creditrice verso il correntista, non vi sarebbe stata da parte della Corte d’appello ragione per attribuirgli efficacia di prova per il sol fatto che era il correntista, invece, ad assumere la veste di attore sostanziale, agendo per la ripetizione dalla Banca delle somme indebite.

Con il secondo motivo contestano la decisione impugnata laddove la stessa si sarebbe basata su alcune ricognizioni di debito o promesse di pagamento inviate dal N. alla banca. Con il terzo motivo deducono che la Corte d’appello sarebbe incorsa in errore nel ritenere che le statuizioni relative all’individuazione del superamento del tasso soglia per un determinato periodo (gli ultimi sette trimestri) non erano state impugnate in appello da nessuna delle parti, omettendo perciò di statuire sul punto relativo alla restituzione degli interessi usurari.

Il primo motivo appare infondato.

Va premesso che la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ritenuto che qualora l’attore proponga domanda di accertamento negativo del diritto del convenuto e quest’ultimo non si limiti a chiedere il rigetto della pretesa avversaria ma proponga domanda riconvenzionale per conseguire il credito negato dalla controparte, ambedue le parti hanno l’onere di provare le rispettive contrapposte pretese.(Cass. 3374/07; Cass. 12963/05; Cass. 7282/97; Cass.).

In tal senso è stato altresì ritenuto che l’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude nè inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, in tal caso la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo. (Cass. 23229/04; Cass. 9099/12).

In tal senso,la Corte d’appello ha ritenuto che l’onere probatorio in ordine al saldo zero gravava sugli allora appellanti ed ha ritenuto che tale prova non fosse stata fornita, per cui ha provveduto all’inizio del calcolo degli interessi dal primo estratto conto prodotto dagli appellanti risalente all’1.1.91.

Tale valutazione appare corretta.

La stessa non appare in contrasto con la pacifica giurisprudenza di questa Corte secondo cui il saldo conto non costituisce nel giudizio di merito valido elemento di prova della esistenza del credito della banca stante la ritenuta non contestazione dello stesso.

In particolare, la stessa non va in senso difforme da quanto ritenuto proprio in tema di interessi anatocistici da questa Corte laddove ha affermato che nei rapporti bancari in conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità, per mancanza dei requisiti di legge, della pattuizione di interessi ultralegali a carico del correntista, la banca deve dimostrare l’entità del proprio credito mediante la produzione, degli estratti conto a partire dall’apertura del conto e cioè dal saldo zero. (Cass. 23974/10).

Tale principio è stato affermato nella fattispecie inversa a quella in esame in cui era la banca ad avere agito tramite decreto ingiuntivo per ottenere il pagamento dello scoperto di conto mentre nel caso di specie si verte in tema di accertamento negativo proposto dai correntisti al quale quindi si applica un diverso onere probatorio.

Dunque nel caso di specie il principio applicabile è che chi esperisce una azione di accertamento negativo deve fornire la prova della fondatezza della propria domanda. In tal senso del tutto corretta è l’affermazione della Corte d’appello secondo cui era onere degli allora appellanti fornire l’estratto conto zero tanto più ove si tenga conto che tale estratto conto era necessariamente stato inviato ex lege ai correntisti i quali ne avevano o ne avevano avuto la disponibilità avendone altresì l’onere di conservazione e sotto tale profilo gli stessi erano in posizione paritaria rispetto alla banca sotto il profilo della possibilità di produrre il documento.

La Corte d’appello ha inoltre fornito un ulteriore decisivo argomento a rafforzamento della propria tesi e, cioè, che gli odierni ricorrenti non solo avevano proposto una domanda di accertamento negativo ma avevano chiesto la condanna della banca al pagamento dei propri crediti, domanda che, anch’essa, doveva essere provata dai ricorrenti.

Tale ultima motivazione non è stato oggetto di contestazione e limitatamente ad essa si è formato il giudicato.

Con la memoria i ricorrenti hanno dedotto censure alla sentenza sotto il profilo della violazione dei principi del diritto comunitario in tema di clausole vessatorie e di rilievo d’ufficio della nullità delle stesse, come affermati dalle sentenze della Corte di Giustizia.

Si osserva, in primo luogo, che tali censure sono inammissibili in quanto tardive poichè le memorie sono delle mere illustrazioni dei motivi già avanzati con il ricorso e non possono introdurre nuove censure alla sentenza.

Anche a volere prescindere,in via di pura ipotesi, da ciò, si osserva, ancorchè superfluamente, che le censure sono prive di ogni fondamento.

Le stesse, nell’affermare un dovere di rilevamento d’ufficio da parte del giudice di nullità afferenti alle clausole contrattuali, confondono tale potere con quello istruttorio e con l’onere della prova in ordine ai rapporti di dare ed avere intercorsi tra le parti.

Il giudice può infatti accertare d’ufficio una nullità inerente al contratto sulla base della documentazione e delle risultanze istruttorie fornite dalla parte cui incombeva il detto onere o comunque presenti in atti,ma non può esercitare d’ufficio attività istruttorie sopperendo al mancato assolvimento dell’onere relativo che fa capo ad una delle parti in relazione ai rapporti intercorsi con la controparte.

In tal senso, se gli odierni ricorrenti avessero prodotto il saldo conto zero,in osservanza del loro specifico onere, il giudice di merito ben avrebbe potuto e dovuto rilevare la nullità o la illegittimità (ove sussistente) di alcuni addebiti, ma tale documentazione non è stata prodotta in atti onde non era onere del giudice disporne l’acquisizione, che del resto nè dal ricorso nè dalla sentenza risulta che sia stata richiesta dai ricorrenti.

Del tutto estranea a tale argomento è la questione della nullità delle clausole dei contratti di conto corrente stipulati tra le parti.

Su tale questione vi è stata espressa pronuncia da parte dei giudici di merito.

Il giudice di primo grado ha rilevato la nullità delle clausole che prevedevano tassi usurari, mentre la Corte d’appello ha dichiarato la nullità della clausola che prevedeva interessi anatocistici e dunque sotto tale profilo gli argomenti svolti nella memoria sono privi di ogni rilevanza e consistenza. Riprova di ciò la di deduce dal fatto, riportato nella narrativa della sentenza impugnata, che tra il giudizio di primo grado e quello di secondo sono stati svolti ben tre accertamenti peritali d’ufficio per accertare i rapporti di dare ed avere tra le parti proprio in considerazione della accertata nullità delle clausole contrattuali di cui si è detto.

Si osserva poi che le ulteriori denunce di nullità, relative alla clausola afferente gli interessi ultralegali nonchè alla commissione di massimo scoperto proposte in primo grado sono state oggetto di scrutinio sia da parte del Tribunale che della Corte d’appello e sono state rigettate e su tali pronunce non c’è motivo di ricorso per cassazione, onde su di esse si è formato il giudicato che preclude a questa Corte ogni esame e pronuncia in proposito.

Tale principio risulta conforme a quanto affermato dalla Corte di Giustizia che ricordata l’importanza che riveste, sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione che negli ordinamenti giuridici nazionali, il principio dell’intangibilità del giudicato (sentenze Kapferer, C-234/04, EU:C:2006:178, punto 20;

Commissione/Lussemburgo, C-526/08, EU:C:2010:379, punto 26, e ThyssenKrupp Nirosta/Commissione, C-3 52/09 P, EU:C:2011:191, punto 123) ha ripetutamente affermato che il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giunsdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto (v., in tal senso, sentenze Eco Swiss, C-126/97, EU:C: 1999:269, punti 46 e 47; Kapferer, EU:C:2006:178, punti 20 e 21; Fallimento Olimpiclub, EU:C:2009:506, punti 22 e 23; Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08, EU:C:2009:615, punti da 35 a 37, nonchè Commissione/Slovacchia, C-507/08, EU:C:2010:802, punti 59 e 60; Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 10 luglio 2014. Impresa Pizzarotti & 38; C. Spa contro Comune di Bari. Causa C-213/13).

Lo stesso deve dirsi infine quanto alla nullità della clausola di variabilità del tasso degli interessi in relazione al cui motivo di appello la Corte d’appello ne ha dichiarato la novità rigettandola.

Anche relativamente a tale capo della sentenza non vi è motivo di ricorso per cassazione con conseguente formazione del giudicato.

Il motivo contiene una ulteriore censura relativa alla valenza probatoria dell’estratto conto bancario, che secondo i ricorrenti non sussiste, per cui sarebbe errato gravare essi correntisti dell’onere di produrre il detto documento.

Il motivo è privo di consistenza.

Questa Corte ha più volte affermato che in tema di prova del credito fornita da un istituto bancario, va distinto l’estratto di saldaconto (che consiste in una dichiarazione unilaterale di un funzionario della banca creditrice accompagnata dalla certificazione della sua conformità alle scritture contabili e da un’attestazione di verità e liquidità del credito), dall’ordinario estratto conto, che è funzionale a certificare le movimentazioni debitorie e creditorie intervenute dall’ultimo saldo, con le condizioni attive e passive praticate dalla banca. Mentre il saldaconto riveste efficacia probatoria nel solo procedimento per decreto ingiuntivo eventualmente instaurato dall’istituto, l’estratto conto, trascorso il debito periodo di tempo dalla sua comunicazione al correntista, assume carattere di incontestabilità ed è, conseguentemente, idoneo a fungere da prova anche nel successivo giudizio contenzioso instaurato dal cliente. (Cass. 14234/03 ù Cass. 2751/02).

Da ciò discende che i ricorrenti ben potevano produrre l’estratto conto a saldo zero che avrebbe avuto piena efficacia probatoria nel presente giudizio.

Il motivo non merita conclusivamente accoglimento.

Il secondo motivo appare infondato e per certi versi inammissibile.

La Corte d’appello ha osservato che i ricorrenti non avevano contestato l’originario debito in linea capitale nei confronti della banca, riportato quale saldo a debito pari a L. 47.958.655 al 30.9.00, ma avevano chiesto che detta somma venisse depurata dagli interessi anatocistici ed usurari e che tramite il riconteggio venisse determinato l’eventuale credito a proprio favore.

Invero, la Corte d’appello non ha attribuito alcun valore di ricognizione di debito da parte dei ricorrenti al saldo debitore di L. 47.958.655 alla data del 30.9.00 ma bensì un valore di non contestazione del dato contabile sotto il profilo meramente fattuale riportando peraltro, la richiesta di depurazione degli interessi anatocistici ed usurari in tal modo evidentemente dando atto per implicito che la somma in questione veniva contestata sia pure limitatamente al suo effettivo ammontare.

Ciò porta ad escludere che il giudice di seconde cure abbia riconosciuto una ricognizione di debito ex art. 1988 c.c. come invece sostenuto nel motivo.

Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il riferimento ad alcuni riconoscimenti di debito e promesse di pagamento che prima dell’inizio della causa i ricorrenti avevano effettuato poichè tali affermazioni non hanno costituito ragioni decisorie.

La riprova di quanto fin qui detto è che la Corte d’appello ha poi disposto CTU proprio per valutare l’esistenza di interessi anatocistici ed usurari per il periodo compreso tra la data del primo estratto conto prodotto dai ricorrenti (1.1.91) e la data dell’ultimo estratto conto (31.3.01) pervenendo all’accoglimento parziale del gravame; accertamento a cui non sarebbe dovuta pervenire qualora avesse accertato che vi era stata ricognizione del debito così come esposto nel saldo conto al 30.9.00.

Il terzo motivo appare inammissibile.

Invero non sussiste il lamentato vizio di omessa pronuncia posto che la Corte d’appello,avendo rilevato che il tribunale aveva riconosciuto la natura usuraria di una parte degli interessi, si è in realtà pronunciata in proposito osservando che tale pronuncia non era stata oggetto di impugnazione nè da parte dei ricorrenti nè della banca.

Dunque sul punto vi è stato esame e conseguente pronuncia da parte della sentenza impugnata.

Si aggiunga inoltre che,comunque,anche nel merito di tale questione la sentenza contiene una specifica pronuncia laddove, nel rideterminare i rapporti di dare ed avere tra le parti, si è basata sui conteggi effettuati dalla CTU, in particolare sul ricalcolo degli interessi con riferimento anche alla applicazione del criterio TMEG per lo storno degli interessi usurari comprensivo anche delle commissioni di massimo scoperto.

La riprova che pronuncia vi è comunque stata è che i ricorrenti contestano l’applicazione del criterio TMEG nel calcolo degli interessi usurari.

Tale ultima censura è comunque inammissibile poichè si risolve in una censura alla consulenza tecnica d’ufficio. In tal caso è noto che la sentenza risulta adeguatamente motivata quando la stessa faccia riferimento alle conclusione della CTU, come avvenuto nel caso di specie, a meno che una delle parti non abbia sollevato nel corso del giudizio osservazioni e critiche alla CTU in ordine alle quali sorge l’obbligo di motivazione in sentenza da parte del giudice. Nel caso di specie i ricorrenti non deducono di avere sollevato critiche alla CTU nel corso del suo espletamento o successivamente per cui il motivo non appare anche sotto questo profilo ammissibile.

Il ricorso va in conclusione respinto.

I ricorrenti vanno di conseguenza condannati in solido al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 5000,00 oltre Euro 200,00 per esborsi ed oltre spese forfettarie ed accessori di legge.

Sussistono le condizioni per l’applicazione del doppio dei contributi D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13,comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2015

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